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“SE NON MI DAI I SOLDI TI LASCIO!”: PER LA CORTE DI CASSAZIONE È ESTORSIONE.

La vicenda ha suscitato grande scalpore a livello nazionale; se ne sono occupati i telegiornali e la carta stampata. Ovviamente, come tutte le volte in cui i Giudici prendono una posizione innovativa, non sono mancate le polemiche.

In tanti hanno ritenuto la sentenza giusta e in linea con la società attuale che cerca di dare sempre più importanza al ruolo economico e famigliare della donna; pochi, per fortuna, coloro i quali hanno giudicato la posizione della Suprema Corte di Cassazione troppo “garantista” della figura femminile.

La donna, negli ultimi decenni, è passata dall’essere figura rilegata in casa senza voce sulle questioni economiche, che venivano lasciate ai compagni, ad essere la figura portante della famiglia; oggi le donne vogliono essere libere di lavorare, di fare carriera, di avere la propria indipendenza economica. Il tutto senza dover rinunciare a essere madri. 

In Italia, purtroppo, mancano ancora normative a tutela del lavoro delle donne madri e lavoratrici; i dati parlano chiaro. Oggi una donna su cinque che è diventata madre si trova a dover rinunciare al lavoro. Questo comporta per le donne la non indipendenza economica e la scelta, spesso forzata, di dover sottostare alle regole dei partner. 

La vicenda di cui si è occupata la Corte di Cassazione, si inserisce in questo contesto domestico; la donna, parte offesa della vicenda, nell’ambito della convivenza con il proprio partner, aveva il proprio lavoro e il proprio reddito. Questa libertà economica era però negata dal marito che, sistematicamente, le chiedeva parte del suo stipendio ricattandola moralmente. Ma entriamo ora nel dettaglio della questione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 27 marzo 2024, numero 12633, condannava per estorsione un uomo che aveva indotto la moglie a consegnargli somme di denaro, minacciando la fine della loro relazione; il ricatto sentimentale era stato intensificato con una generica e infondata promessa di restituzione delle somme. Il reato di estorsione, disciplinato dal nostro codice penale all’art. 629, prevede la reclusione da cinque a dieci anni e la multa da euro 1.000 a euro 4.000; non stiamo parlando, quindi, di un reato cd. bagatellare, ma di un vero e proprio delitto con pene molto severe.

La sentenza della Corte di Cassazione nasce dal ricorso che l’uomo aveva presentato avverso la sentenza di condanna, emessa dalla Corte d’Appello di Venezia nei suoi confronti, proprio per il reato di estorsione e stalking; la compagna aveva  sporto denuncia querela con la quale aveva accusato il marito di averle estorto diverse migliaia di euro con la ripetuta minaccia, da parte di lui, di “troncare “ la relazione se lei non avesse consegnato i soldi e facendole credere di essere in difficoltà economiche poi risultate inesistenti. 

La donna presentava in Tribunale, come prova, le chat WhatsApp contenenti i ricatti dell’uomo, le ripetute minacce e le continue richieste di denaro; invano la difesa dell’imputato provava a sostenere l’inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp.

Gli Ermellini, però, hanno ribadito come i messaggi WhatsApp vadano considerati alla stregua di prove documentali ex art. 234 c.p.p. in quanto depositati direttamente dalla persona offesa con la denuncia querela; prove, quindi, da considerarsi perfettamente valide ai fini processuali.

Inoltre, l’uomo a propria difesa aveva sostenuto che nella coppia si era soliti usare da anni un linguaggio “forte” e che tale tipo di comunicazione tra i due coniugi doveva considerarsi come accettazione da parte della moglie, di una relazione “aggressiva”.

Anche su questo punto, i Giudici di Piazza Cavour, hanno affermato come la presenza di un linguaggio dai toni spinti all’interno del ménage della coppia non legittimi certo “le pesanti offese, gli insulti, le minacce di morte e il reiterato disprezzo” costantemente rivolti dall’uomo nei confronti della moglie; moglie che si trovava, al contrario, in una situazione di “prevaricazione e sudditanza psicologica”.

Sulla base di queste premesse, la Cassazione ha condiviso le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva escluso che i versamenti di denaro richiesti alla donna dal partner fossero il frutto di una libera scelta della vittima e come tali versamenti dovevano considerarsi effetto di una vera e propria estorsione.

Al riguardo, la Suprema Corte ha sottolineato che la minaccia può essere esercitata sia con toni apertamente aggressivi, sia in modo più subdolo, in maniera comunque tale da incutere timore e “coartare”, cioè costringere, forzare la volontà della vittima.

Il che può avvenire, precisa la sentenza in esame, anche per mezzo della minaccia di rompere una relazione sentimentale, che assume i contorni di un vero e proprio ricatto sentimentale: o meglio, in termini giuridici, di una estorsione.

Attenzione però a non confondere i contenuti di tale sentenza di diritto penale, con i doveri di assistenza reciproci che il codice civile impone tra i coniugi. Il dovere di solidarietà impone tra  marito e moglie (e anche alle coppie unite civilmente) di prendersi cura l’uno dell’altra anche economicamente e, quando ciò avviene da parte di un coniuge in favore dell’altro con la consegna di denaro, il coniuge cedente non ha diritto  alla restituzione delle somme eventualmente consegnate al partner per le necessità della famiglia. Questo, sempreché, la volontà del partner che ha effettuato la dazione economica, non sia stata coartata con minacce proferite con serietà e intento minatorio, al fine di procurarsi un illegittimo vantaggio economico; in questo caso ci troveremo davanti a veri e propri atti penalmente sanzionabili.